,

Video della lettura del mio testo “strangeR” a Udine

Prefazione: in occasione della settimana della salute mentale, oltre alla mia mostra “Disturbo?”, ci sono state altre iniziative organizzate dalla cooperativa Itaca e non, tra cui la lettura di alcuni testi selezionati, che avevano come tema e titolo “WHEN YOU ARE STRANGE(R)/QUANDO SI È STRANI(ERI)”. Io ho scritto il mio, riguarda la mia esperienza fotografica durante gli sbarchi in Sicilia mentre ero lì per Der Spiegel per fare un reportage. (Per avere più  informazioni sull’iniziativa qui c’è la descrizione dettagliata)

Il mio testo intero lo metto a disposizione qua sotto, mentre se volete vedere le foto e i video dei fatti di cui parlo nel testo, sono qui:

“When you are strangeR” testo di Giulio Magnifico

La mia passione è la fotografia, la quale mi ha portato a viaggiare in paesi molto distanti da casa e dall’Italia ma è proprio in Italia, a pochi chilometri da casa, che mi sono sentito straniero e strano contemporaneamente. Mi è capitato in Sicilia, sulla costa che si affaccia vero l’Africa, tra Augusta e Pozzallo, mentre mi trovavo lì insieme ad una giornalista tedesca di Der Spiegel, con lo scopo di effettuare un reportage sui migranti che arrivavano in Sicilia partendo dalle coste africane. Mi è capitato di andare da solo in Iraq nel 2014, diverse volte lungo il confine Turco-Siriano, e di viaggiare e fotografare in tutta l’Europa senza nessun timore…ma non sapevo cosa mi aspettava sulle vicine coste siciliane.
Una volta arrivati a Catania e scaricati i bagagli in albergo, abbiamo fatto un giro per la città per tastare la situazione, e subito ci siamo accorti dell’elevato numero di migranti presenti, comunque abbastanza integrato in città, tra i parchi, la stazione e il lungomare. Una situazione pesante ma non critica come quella che ci avrebbe atteso nei giorni seguenti, per i quali il nostro programma prevedeva di andare a documentare uno sbarco nel porto di Augusta e di muoverci verso Siracusa e Pozzallo. Così la mattina dopo partiamo verso il porto commerciale di Augusta, dove arriviamo con un buon anticipo e nel porto vuoto, alle prime ore del mattino per aspettare la nave della marina militare, che avrebbe dovuto attraccare entro un paio di ore. Nel frattempo facciamo amicizia con le uniche altre persone presenti, quattro ragazzi, giornalisti, che stavano girando un video documentario per il parlamento europeo. Il clima era molto disteso, rilassato, nonostante il grande caldo aspettavamo all’ombra di una gru scrutando il mare in cerca della nave…passando le ore ma niente, dalle nove del mattino arriva presto mezzogiorno, quando, insieme al gran caldo, vediamo arrivare in lontanza dal mare anche la nave e un po’ di movimento di auto della polizia, esercito, ambulanze e mezzi dei soccorritori. Questo volevo dire che la nave della marina militare stava per attraccare, ed infatti pochi minuti dopo inizia il processo di avvicinamento al molo. Già dalla distanza si potevano vedere centinaia di persone ammassate sopra la nave, sotto il sole, alcuni si proteggevano dal sole sotto delle grandi lenzuola bianche, altri guardavano incuriositi il primo approdo sicuro dopo molti giorni passati in mare. Io estraggo la macchina fotografica dalla borsa e inizio a scattare finché la nave non si avvicina controvento al molto e si inizia ad avvertire un odore acre fortissimo di sudore e fatica, di persone rimaste in mare, sotto il sole e senza possibilità di lavarsi, per quasi una settimana. E più la nave si avvicina e più mi rendo conto che quelle centinaia di persone, ammassate sul ponte della nave militare e in pessime condizioni igieniche mi guardava, come io guardavo loro grazie al teleobiettivo, e da quel momento inizio a capire che non sarà facile come pensavo, che non stavo fotografando la lamiera della nave ma la sofferenza delle persona sopra, senza che loro potessero accettare o rifiutare, e soprattutto senza che io potessi comunicare con loro, anche solo per spiegare perchè ero li e costa stavo facendo. Quelle persone venivano fotografate da me come una persona può fotografare animali dentro uno zoo, con la differenza che loro capivano cosa stavo facendo e gli animali dello zoo non avevano rischiato la vita come loro, non avevano dovuto scappare dalle loro terre, non avevano dovuto lottare per sopravvivere, non avevano visto morire persone care al loro fianco…E io stavo catturando la loro anima, per impressionarla sui miei files, senza nemmeno chiedergli il permesso. Stavo tremando dall’emozione che mi provocava il disagio, dovevo usare dei tempi di scatto più lunghi per evitare che si percepisse il tremolio nelle foto. E come se non bastasse le operazioni di attracco sembravano infinite. Quando la nave era ormai a pochi centimetri dal cemento del molo, l’odore era fortissimo, e quei volti e quegli sguardi dispersti ad appena un paio di metri da me. Non volevo catturare la loro sofferenza in questo modo, senza che loro potessero reagire, accettare o meno, erano obbligati a stare lì, come se fossero in mostra per me. Io mi sentivo totalmente fuori posto, non avrei voluto fotografare quelle persone ma magari aiutarle, come i volontari presenti sul posto, ma il dovere era quello di fotografare e dovevo farlo. La cosa che mi permetteva di continuare a fotografare era il sapere, dentro me stesso, che quello che stavo facendo era un bene per loro, che attraverso quelle immagini le persone che hanno un vita normale, avrebbero potuto rendersi conto di quello che avevano attraversato quelle persone, e della disperazione, angoscia e sofferenza nei loro volti. Quando puntavo la mia lente verso di loro, alcuni si coprivano, non volevano essere fotografati, e non lo facevano perchè si rendevano conto della loro situazione ma perchè avevano paura che le persone dalle quali sono fuggite potessero riconoscerli e fare del male alle loro famiglie, rimaste a migliaia di chilometri. La cosa per me era sempre più difficile, provavo un disagio sempre più forte, sopratutto in virtù del fatto che, nonostante la nave avesse attraccato da parecchio, i migranti dovevano aspettare che i medici salissero per effettuare tutti i controlli sanitari necessari a non contagiare i volontari che li dovevano accogliere. Noi sotto all’ombra della loro nave, con acqua, mascherine davanti alla bocca e loro sul ponte della nave, seduti sulle lamiere, sotto il sole , da giorni in mare e sottoposti a controlli come bestie. Il mio malessere stava prendendo il sopravvento, non riuscivo quasi più a fotografare, cercavo di parlare con le altre persone sul posto, cercavo di distrarmi per non pensare al loro malessere. Solamente col passare dei minuti, i migranti sulla nave iniziavano ad avere espression più rilassare, a capire che finalmente erano salvi, erano arrivati alla fine della peggiore parte del loro lungo viaggio, d gli sguardi da timorosi si tramutavano in speranzosi e fiduciosi. Alcuni di loro sorridevano e una ragazza in cinta mi faceva perfino il segno del cuore con le mani. Così lentamente e con loro, anche io iniziavo a rilassarmi e distendermi, non tremavo più e riuscivo a guardare quelle persone in modo diverso, non come animali dentro una gabbia in mare ma come persone speranzose, persone contente che la loro sofferenza fosse finita e che finalmente avesssero messo piede sulla terraferma italiana, o meglio europea. Dopo tutti i controlli sanitari hanno iniziato a scendere, e venivano accompagnati dentro dei tendoni della protezione civile, con all’interno delle brandine dove potevano riposare, ricevere informazioni e gli venivano consegnati dei sacchetti con all’interno cibo e acqua. Noi li abbiamo seguiti durante queste operazioni e ad una ragazza siriana incinta abbiamo dato il nostro telefono per chiamare sua madre, rimasta a Damasco, che non sentiva da 15/20 giorni. La telefonata era commovente, mentre io giravo un toccantevideo, lei non riusciva a parlare dall’emozione, tanto che è scoppiata in lacrime e ha dovuto passare il telefono a suo marito vicino a lei. In quel momento mi sono girato e ho visto l’altro giornalista che stava filmando come me, con il volto completamente in lacrime dalla felicità, li ho capito che non ero il solo a sentirmi straniero nonostante fossi nella mia Italia.”

Leave a Reply

Your email address will not be published. Required fields are marked *